domenica 1 gennaio 2012

La Turchia "modello" fa strage di civili kurdi.

Mercoledì notte F-16 dell’aviazione turca e droni senza pilota (l’ultimo acquisto delle forze armate di Ankara) hanno bombardato i dintorni di un villaggio chiamato Roboski (Ortasu in turco) al confine con l’Iraq. Raccontano i testimoni di aver sentito un odore acre di bruciato, di carne bruciata. Gli abitanti di Roboski sono accorsi subito sul luogo, nonostante la neve. Sicuri di quello che avrebbero trovato. Di fronte a loro i corpi mutilati di decine di giovani e uomini, animali sventrati. Racconta al telefono un giornalista kurdo dell’agenzia Diha di aver sentito un urlo squarciare il silenzio tetro di quella visione: una mamma disperata in cerca dei suoi due figli. Morti entrambi in quel bombardamento. Quel giornalista è uno dei pochi scampati al carcere nell’ultima offensiva delle autorità turche che hanno, in 24 ore, arrestato 49 giornalisti kurdi e di sinistra. Scomodi testimoni della guerra sporca condotta contro i kurdi sia con le armi che con il carcere e la repressione. Scomodi testimoni anche di quest’ultimo massacro.

Le foto dei corpi avvolti nelle coperte delle vittime di Roboski stanno facendo – lentamente – il giro del mondo. E intanto si cominciano a conoscere le biografie di questi uomini che le forze armate turche hanno «scambiato per terroristi».

Zahide Encu è la madre di Aslan, 12 anni, ucciso nei bombardamenti di mercoledì notte. «Il mio figlio maggiore – racconta – è rimasto ferito camminando su una mina. Ha perso una gamba. Aslan comprava e vendeva cose di contrabbando al confine anche per racimolare i soldi per una protesi per suo fratello. Me l’hanno ammazzato», grida, la voce si perde in un lamento che fa venire i brividi. Aslan era andato a comprare al mercato nero della frontiera due taniche di benzina per rivenderle. «Il contrabbando – dice Halit Encu, parente di Aslan – è l’unica fonte di guadagno che abbiamo». Il contrabbando, la frontiera. Storie che si incrociano, storie di miseria, guerra, fame. Le abbiamo viste al cinema, nel film pluripremiato del regista iraniano Bahman Ghobadi. Il tempo dei cavalli ubriachi. Raccontava queste storie il regista kurdo di Adana Yilmaz Guney, negli anni ‘60. Non è cambiato molto alla frontiera kurda. La gente cerca di sopravvivere ma ha un nuovo nemico, la guerra. Una guerra voluta da Ankara che non accetta di riconoscere non solo l’esistenza del popolo kurdo, ma nemmeno le sue sofferenze. Il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) ha negli anni proposto, attraverso cessate il fuoco unilaterali, alternative al conflitto. Ma ha incontrato solo silenzio e porte chiuse. Lo stesso vale per il Bdp (Partito della pace e della democrazia) che ha eletto 36 deputati al parlamento turco lo scorso 12 giugno. Un deputato (Hatip Dicle) è stato privato del suo mandato e si trova in carcere come altri cinque parlamentari in carica ma dietro le sbarre. L’offensiva del governo dell’Akp (che significa, ironia della sorte, partito della giustizia e sviluppo) guidato da Recep Tayyip Erdogan (uomo con il mito di se stesso, non a caso grande amico del nostrano Silvio Berlusconi) ha raggiunto livelli molto alti in questi ultimi mesi. In carcere sono finiti migliaia di kurdi e oppositori di sinistra: amministratori locali, intellettuali, studenti, sindacalisti, donne, avvocati, giornalisti. Tutti rei, secondo il teorema Erdogan, di essere membri o sostenitori del Pkk.

Risulta difficile capire se il premier turco abbia in mente di eliminare (sbattendoli in galera o uccidendoli) i 20 milioni di kurdi che vivono in Turchia. Le ultime operazioni militari e di polizia inducono a pensare che qualcosa sia sfuggito di mano a Erdogan. Oppure, grazie al colpevole silenzio dell’occidente, davvero Ankara pensa di risolvere così la questione kurda. Cosa evidentemente impossibile. Ma è chiaro che, consapevole di questo, Erdogan ha intenzione di indebolire più che può l’opposizione kurda e di sinistra. Che qualcosa stia sfuggendo di mano al premier lo dimostrano le schizofreniche dichiarazioni dei suoi ministri. Per un vice premier (Bulent Arinç) che annuncia un nuovo pacchetto di «riforme» che prevede tra l’altro di depenalizzare (sì perché adesso è reato e si finisce in galera per apologia di terrorismo) l’uso del titolo «signor» per parlare del leader del Pkk Abdullah Ocalan, ecco il ministro degli interni Idris Naim Sahin dichiarare che «il terrorismo il Pkk lo fa anche con pennelli, penne, fotografie, musica, arte e cultura». Dichiarazioni che si fermano sulla soglia del dichiarare che il Bdp è parte del Pkk. Così come parte del Pkk sarebbero gli elettori del Bdp e per estensione i kurdi, compresi i 35 civili uccisi mercoledì notte. Nena News

Questo articolo e’ stato pubblicato il 30 dicembre 2011 dal quotidiano Il Manifesto

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