Suruc è una cittadina di 100.000 abitanti nel kurdistan turco. Dopo l'avanzata dei tafkiri dell'Isis, sono stati aperti una decina di campi profughi aumentando la popolazione di altri 150000 rifugiati: due di questi sono gestiti direttamente dal governo turco, ospitano le popolazioni siriane e non è consentito accedervi. Gli altri otto sono gestiti dalla municipalità di Suruc, ospitano le popolazioni kurde scacciate dall'isis e non è stato facile, emotivamente parlando, entrarci.
Quando si entra nella cittadina di Suruc, nella piazza centrale si erge un monumento raffigurante una mano che stringe un melograno, frutto simbolo di questa terra e anche di questo periodo. Tant'è che anche di fronte alla piazza c'è dipinto un altro melograno aperto in due su una parete gigante. Questo bellissimo frutto, a nostro avviso, contiene in sé l'essenza e la sintesi del quadro politico e sociale che i kurdi vivono attualmente e lo utilizzeremo come metafora per raccontare questo secondo giorno di carovana che stiamo cercando di avviare al meglio delle condizioni possibili.
Prendiamo la nostra giornata e dividiamola in due, come quando si spacca il melograno: da un lato c'è la buccia che brilla di un amaranto irregolare e lo scrigno bianco, dall'altra, all'interno, custoditi come perle preziose, ci sono i chicchi.
L'amaro della buccia lo abbiamo assaporato questo pomeriggio quando siamo entrati all'interno dei campi profughi per distribuire i dolci ai bambini. Vedere centinaia di loro correre, a volte scalzi e magari senza genitori, aggrapparsi alle nostre braccia e riuscire comunque a ridere, vederci come un'ancora che distribuisce sicurezza, per noi che non c'è mai capitato di entrare in questi luoghi è stato qualcosa che ci ha lasciato senza parole e con le lacrime agli occhi. Distribuivamo delle merendine che per i nostri figli sarebbero state banali, eppure per loro erano un tesoro che fermava le lacrime e apriva un sorriso che si estendeva immediatamente ai loro occhi. Quando abbiamo finito di distribuire i dolcetti, siamo stati invitati ad entrare in una tenda per bere il tradizionale cay , il the che si beve ad ogni ora della giornata. In una tenda di otto mq saremmo stati in più di quindici; seduti in cerchio via hanno servito il cay e poi le donne hanno cominciato a intonare dei canti tradizionali ed altri che inneggiavano a Kobane e a tutta la resistenza kurda. A volte diventa facile capire una lingua che non si conosce, e le donne e gli uomini kurdi in questo sono maestri.
Quando siamo usciti da quegli accampamenti ci siamo diretti verso la postazione dove partono gli autobus per Mehser, il villaggio dove siamo ospiti, e quelli per Kobane. Nei secondi abbiamo visto tantissimi giovani ragazzi e nei loro occhi abbiamo intuito la fierezza e la determinazione di chi magari ha anche perso tutto, ma sa benissimo perché e contro chi si combatte: contro chi ha distrutto i propri villaggi e ucciso i propri cari e per un'idea nuova di libertà ed autonomia che si chiama Rojava. Ed è proprio il Rojava, Kobane e tutti villaggi liberi dei kurdi a comporre quel mosaico dei fantastici chicchi che trasformano l'amaro della buccia nel sapore unico dell'autonomia.
Stamattina sul confine fra Mehser e Kobane abbiamo sentito il rumore dell'artiglieria, l'odore della polvere da sparo e abbiamo riconosciuto il sapore del melograno. Perché se come crediamo questo mondo va ricostruito, bisogna farlo a partire dall'esempio che queste donne e questi uomini danno all'umanità.
E allora: che la lotta continui, che il simbolo della vittoria si posi su Kobane, che il Rojava si diffonda, che i melograni diventino anticorpi contro l'ignoranza e le malvagità di questo mondo! Lunga vita alle ribelli e ai ribelli di tutto il mondo!
Roberto Cipriano, cso Labàs
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