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domenica 12 maggio 2013

Turchia, il Pkk si ritira in Iraq : Duemila guerriglieri in viaggio

I posti di blocco alla frontiera resi permeabili agli uomini che hanno combattuto per l’indipendenza dei curdi. Promesso oltre confine l’inserimento nella società
marta ottaviani
La Turchia da oggi inizia a sperare, tenendo nello stesso momento il fiato sospeso. Dalla mezzanotte le prime cellule del Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, hanno iniziato a lasciare il suolo della Mezzaluna, in quello che dovrebbe essere il primo passo verso la fine della lotta armata. Sono circa 2000 i guerriglieri che nei prossimi 3-4 mesi passeranno la frontiera, riparando in Nord Iraq, dove si trovano i campi più importanti del Pkk e dove il presidente della Regione Autonoma Curda, Massoud Barzani, di concerto con il governo di Ankara, è pronto ad accoglierli, offrendo loro una nuova vita e possibilità di inserimento nella società.  
Stando a quanto riporta il quotidiano filogovernativo Sabah, nelle ultime ore sono arrivati nel sud est del Paese medici che parlano in curdo, i posti di blocco sulla frontiera sono stati allentati e i guardiani del villaggio, gente di etnia curda, incaricata dallo stato turco di controllare il territorio, sta lentamente vedendo diminuiti i loro margini di azione. Il quotidiano Milliyet scrive che il ritiro è già iniziato da 48 ore ma non sarebbe stato detto nulla per limitare al massimo gli incidenti e i rischi. I primi a muoversi sarebbero stati i 40 militanti che stazionavano sul Mar Nero, uno dei luoghi meno congeniali all’organizzazione separatista, vista la forte componente nazionalista della regione. Per agevolare le operazioni, il governo avrebbe anche disattivato i droni puntati sul confine con il Nord Iraq. L’agenzia Firat news, vicina al Pkk, parla di ritiro pianificato e ordinato. 

Il processo ha preso avvio ufficialmente lo scorso 21 marzo, quando in occasione del Nevruz, il capodanno curdo, Abdullah Ocalan, fondatore del Pkk e detenuto sull’isola di Imrali, aveva chiesto all’organizzazione di abbandonare la lotta armata e ritirarsi. L’appello è arrivato dopo tre mesi di negoziati con il governo turco, dove “Apo” sta agendo da mediatore e il cui punto principale sarebbe la fine della lotta armata in cambio dei riconoscimenti costituzionali che la minoranza attende da decenni. 
Per cantare vittoria, è decisamente troppo presto. Il Bdp il partito curdo in parlamento, ha accusato il governo islamico-moderato guidato da Recep Tayyip Erdogan di aver compiuto alcune operazioni militari nei giorni scorsi che rischiano di minare l’intero processo. Dall’altra parte il premier Erdogan ha criticato le modalità con le quali l’organizzazione sta gestendo il ritiro dalla Turchia, in particolare l’annuncio della data ufficiale di inizio delle operazioni. “L’annuncio della data – ha detto Erdogan ieri durante il discorso al suo gruppo parlamentare – è sbagliato. Voglio dire, se tu hai intenzione di fare una cosa, non c’è bisogno di annunciare la data precisa. Il punto principale è deporre le armi e andarsene”. Il primo ministro si riferiva alla conferenza organizzata dal Pkk lo scorso 25 aprile e che ha polarizzato tutta l’attenzione del processo sull’organizzazione e non sugli sforzi del premier. 

Il Partito curdo è preoccupato e teme operazioni militari contro i guerriglieri sulla strada del ritiro. “Considereremo il governo responsabile di ogni operazione militare” ha detto Gultan Kisanak, co-segretario del Bdp.  
La situazione interna del Paese non è certo più tranquilla. Gruppi di nazionalisti rappresentano una minaccia costante per la sicurezza interna, soprattutto nel sud-est del Paese, dove la minoranza curda è più numerosa. I sondaggi mostrano l’Akp, il Partito islamico-moderato per la Giustizia e lo Sviluppo guidato da Erdogan, in calo sensibile dei consensi proprio a causa della trattativa.  
C’è poi il problema, enorme, della nuova costituzione. L’opposizione laica e quella nazionalista hanno abbandonato i lavori in segno di protesta nei confronti della trattativa e contrari al progetto di riforma presidenzialista di Erdogan, che l’anno prossimo ambisce a diventare capo dello Stato con super poteri. Il premier è in un momento di difficoltà e rischia di vedere sfumare i suoi sogni di gloria. Proprio ieri i giornali riportano le dichiarazioni di Abdullah Gul attuale Capo di Stato, sempre più in rotta di collisione con il primo ministro e suo possibile avversario alle prossime presidenziali, che si rammaricava per il nulla di fatto a cui sono arrivati i lavori sulla bozza fino a questo momento. Un messaggio chiaro per Erdogan: la trattativa con i curdi, che doveva rappresentare il suo capolavoro politico, rischia di ritorcersi contro. E il premier, in previsione delle elezioni politiche, presidenziali e amministrative ha assolutamente bisogno di tornare con gli indici di popolarità ai massimi livelli. 

Fonte: la Stampa ,08/05/2013

 

sabato 19 gennaio 2013

La guerra fredda Turchia-Kurdistan

Roma, 19 gennaio 2013, Nena News - Si complica la situazione nella regione semiautonoma del Kurdistan iracheno. Lo scorso mercoledì è giunta notizia di un raid effettuato da una pattuglia di F-16 turchi sulle montagne del Qandil, roccaforte-santuario del PKK.
L'azione militare è destinata ad allargare la frattura che divide la comunità curda, chiarendo ulteriormente come il crescente appoggio del governo turco al KRG (Governo regionale curdo) abbia l'intento di isolare e depotenziare il PKK. L'offensiva rende ancora più complessa la situazione nella scacchiera curda, vanificando i flebili effetti delle aperture al dialogo di Ankara e dei negoziati di pace che per la prima volta coinvolgono il fondatore del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, Abdullah Ocalan.
Diyarbakir, città di 500mila abitanti nell'Anatolia Sud-Orientale, è in questi giorni epicentro delle cronache del conflitto: dalle sue basi militari sono partiti gli F-16 che hanno bombardato le montagne del Kurdistan iracheno per distruggere i bunker dove sono asserragliati i capi del PKK. Ankara ritiene che oltre duemila militanti del partito si nascondano nell'area montuosa, le cui impervie cime sono difficili da raggiungere con veicoli militari. Erdogan ha fatto sapere che gli attacchi si protrarranno finché i militanti del partito non decideranno di deporre le armi. Cinquanta postazioni dei ribelli sono state colpite, ma non sono noti dati sul numero delle vittime.
Sempre a Diyarbakir si sono tenuti il 17 gennaio i funerali delle tre attiviste del PKK uccise la scorsa settimana a Parigi. Decine di migliaia sono scesi in piazza per piangere la morte di Sakine Cansaz, 55enne fondatrice del PKK, di Fidan Dogan e di Leyla Soylemez, rispettivamente 30 e 24 anni. Se permane l'incertezza sui mandanti dell'omicidio - Erdogan ha parlato negli scorsi giorni di "faida interna al movimento", mentre politici e attivisti curdi parlano di un'azione collegabile ai servizi segreti turchi - risultano chiari l'intento e l'effetto dell'azione: sabotare il dialogo e generare nuove violenze.
A partire dallo scorso dicembre, per ammissione dello stesso capo dei servizi segreti nazionali Hakan Fidan, è stato intrapreso un dialogo di pace con Abdullah Ocalan, capo spirituale del PKK. L'ex leader del partito è tenuto in isolamento nella prigione-isola di Imrali dal 1999. La richiesta di Erdogan è chiara e univoca: disarmo dei militanti del PKK. Le concessioni che Ankara sarebbe disposta a fare sono varie, dalla liberazione di alcuni prigionieri del PKK e di altri partiti indipendentisti curdi, fino all'eliminazione del divieto di insegnare la lingua curda in alcune scuole della Turchia. Secondo The Economist rimane però un'incognita: Ocalan è venerato dalla comunità curda, ma non è chiaro quanta influenza possa ancora vantare sui nuovi capi del partito dopo oltre dieci anni di isolamento.
All'interno del Kurdistan la situazione è complessa. La crescente cooperazione tra Ankara e Erbil vede una forte ipoteca turca sullo sfruttamento delle ingenti risorse petrolifere presenti nel Kurdistan iracheno. Il denaro che la Turchia sta investendo nel potenziamento delle infrastrutture della regione autonoma non prescinde però da maggiori garanzie sulla piena collaborazione del KRG nell'isolare i militanti del PKK. Un Kurdistan sempre più lontano da Baghdad dovrà impegnarsi a risolvere il conflitto che separa l'opinione pubblica interna alla regione.
Il crescente appoggio della Turchia al Kurdistan iracheno va contro la tradizionale intenzione di Ankara di mantenere unito l'Iraq: una sua frammentazione era sempre stata vista come causa d'indebolimento regionale, destinata ad eliminare un utile baluardo anti-iraniano. Gli atteggiamenti del primo ministro iracheno Al-Maliki e il suo avvicinamento a Teheran hanno però progressivamente turbato la Turchia che ha aumentato il suo appoggio alla regione semi-autonoma del Kurdistan, cercando di vincolare Barzani a un maggior impegno a richiamare i membri più ostili della comunità curda presenti in Turchia e a mettere ordine all'interno della propria regione.
Prosegue intanto il conflitto tra l'Iraq e la regione curda. La devoluzione del 17% del bilancio statale dell'Iraq nelle casse di Erbil non è stata sufficiente a trattenere il governo di Barzani dal cedere alle lusinghe dei grandi investitori internazionali, allettati dall'enorme disponibilità di risorse petrolifere ancora non sfruttate nell'area. La decisione del Kurdistan di non utilizzare più dallo scorso aprile l'oleodotto nazionale per le esportazioni di petrolio ha generato ulteriore acredine, risoltasi in un aumento delle tensioni lungo i confini con l'Iraq. Nell'area proseguono intanto le violenze: in quest'ultima settimana due attentati hanno insanguinato Tikrit e Tuz Khurmatu, uccidendo oltre 30 persone e ferendone più di 200.
Una grande quantità di elementi va quindi a dipingere un quadro fosco per il futuro della comunità curda. L'ambigua politica di Ankara che alterna aperture alla trattativa e pugno di ferro, l'opposizione dei nazionalisti turchi e delle frange più estreme e irredentiste del PKK la fanno da padroni in un conflitto che da decenni dissangua la Turchia. Le oltre 40mile vittime del conflitto tra Turchia e PKK dagli anni Ottanta ad oggi continuano a interporsi tra le due parti, rendendo difficile un effettivo progresso nei rapporti. 
Nena News

sabato 9 aprile 2011

Siria: nel nord scendono in piazza i curdi

Violente cariche di polizia contro le manifestazioni dell'opposizione nel sud, scontri anche alla periferia di Damasco. Nel nord scendono in piazza i curdi.
DAMASCO - E' di almeno diciassette morti il bilancio degli scontri di oggi nella città di Daraa, nel sud della Siria. Lo riferisce la tv araba Al Jazeera. Le vittime sono tutte manifestanti colpiti dalle cariche della polizia, che ha cercato di disperdere una manifestazione di protesta contro il presidente Bashar al-Assad e il suo regime. Nell'onda dell'opposizione, ora la minoranza curda torna con forza ad avanzare le sue rivendicazioni di riconoscimento e autonomia. Manifestanti curdi sono scesi in strada a Qamishli e Amuda, due cittadine al confine con Turchia e Iraq, nella ricca regione nord-orientale. Il presidente Assad aveva ieri concesso, dopo mezzo secolo, il diritto di nazionalità a decine di migliaia di curdi della regione. Ma alcuni partiti curdi non riconosciuti dalle autorità avevano giudicato insufficiente la misura e avevano appoggiato la nuova mobilitazione anti-regime indetta per oggi in tutta la Siria.

tratto da Repubblica.it