sabato 19 marzo 2016

Report da Amed

Da una parte c’è la guerra, dall’altra una nuova concezione della vita e del mondo comincia. Così ci accoglie Mustafa Ocaklik, co-presidente della’associazione Rojava.
Nata nel 2014 dopo i fatti di Shengal, per dare un aiuto concreto a 30.000 Ezidi e a più di 10.000  sfollati del Rojava.  L’associazione si occupa di fornire aiuti economici che il Governo Turco non fornisce e soprattutto supporto medico e psicologico alle donne, ai bambini e a chiunque abbia bisogno.
I loro non sono campi profughi ma “common living”, i rifugiati non sono abbandonati a se stessi ma seguiti nelle loro necessità quotidiane.
Dall’inizio dei coprifuochi nelle varie città l’associazione cerca di garantire assistenza sanitaria a  chi ha bisogno perché gli ospedali non sono autorizzati a prestare l’adeguato soccorso, per gli interventi più semplici come per le operazioni più difficili.
A venti minuti da Amed andiamo al campo profughi degli Ezidi fuggiti nell’agosto del 2014 dopo la dura repressione di Daesh. Arrivati in circa 7000, oggi sono 1200 senza prospettiva. Sono assistiti dalla municipalità di Amed per quanto possibile con il sostegno di medici, infermieri e insegnanti volontari.
Ritornati ad Amed abbiamo incontrato Ayse Gokkan, responsabile dei rapporti diplomatici per il Congresso delle donne libere (Kja). Ci spiega che l’autonomia democratica passa innanzitutto per il riconoscimento della parità di genere, su tre livelli: famiglia, società e stato.
“Tutto è partito dalla lotta delle donne guerrigliere – spiega Ayse – il nostro simbolo è Sakine Canzis”. Tutte le organizzazioni femminili fanno capo alla Kja. Le parole d’ordine sono autonomia e autodifesa armata e non armata, a tutti i livelli da quello fisico a quello psicologico, e la più grande risorsa è la solidarietà tra le donne stesse perché non rimangano sole all’interno della famiglia, della società e della nazione. Kja ha stipulato un protocollo d’intesa con tutte le istituzioni e organizzazioni politiche a tutela dei diritti delle donne, stabilendo, in ognuna di esse, una co-leadership  uomo donna. Nelle municipalità curde per esempio ci sono i co-sindaci che, seppure non riconosciuti dalla legge turca, sono fortemente voluti e riconosciuti dalle donne e dal popolo curdo. Dal 2003 ad oggi, la presenza femminile nelle varie organizzazioni è salita dal 23% ad oltre il 50%.
In serata entriamo nel distretto di Sur che per oltre 110 giorni ha subito un pesante assedio che il Governo Turco fa passare per coprifuoco per ragioni di sicurezza. Attualmente circa la metà dei quartieri sono liberi, ma strettamente sorvegliati, ogni accesso è presidiato dalle forze di polizia. Impossibile scattare foto o riprendere con la telecamera i militari e i chek point che sono dislocati ogni 10 metri sulla strada principale, Gazi Caddesi e negli angoli più disparati dei vicoli. Sacchi di sabbia e teli di plastica nascondono i militari in divisa e in borghese che si muovono per le strade del distretto armati e muniti di ricetrasmittente, bloccando e perquisendo chiunque provi ad entrare a Sur. Tank e blindati ovunque, nel cuore della più grande città a  maggioranza curda del sud est turco. Sur è patrimonio dell’Unesco. Il danno non è solo alle persone, ma anche ai monumenti storici, architettonici, ai luoghi di culto.
Con Kurdistan nel cuore, Nelly e Marco

p.s. siamo entrati a Sur, non ci crederete, a bordo di una elegante e pulitissima Renault, in sei, appollaiati gli uni sugli altri, senza cinture di sicurezza. Eppure non siamo stati fermati al chek-point. Due amici della nostra stessa delegazione, invece, a piedi sono stati bloccati e cacciati senza complimenti solo perché portavano nello zaino il biglietto da visita della KJA che, tra l’altro, anche noi custodivamo gelosamente nel nostro bagaglio.





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