sabato 17 novembre 2012

Turchia, il primo ministro invoca la pena di morte

“Attualmente molta gente, nei sondaggi, dichiara che la pena di morte dovrebbe essere ripristinata. I familiari delle persone uccise vivono nel dolore, mentre altri si sollazzano alle feste mangiando kebab”. Parole pronunciate durante il congresso annuale del Partito per la giustizia e lo sviluppo, forse destinate a galvanizzare una “audience” interna. Di fatto, tuttavia, il 3 novembre il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan (nella foto) ha nuovamente introdotto il tema della pena di morte nell’agenda politica del paese.
Anche perché ci è tornato sopra, a freddo, otto giorni dopo, sostenendo che “il potere di perdonare spetta alle famiglie colpite, non a noi” e lanciando questa domanda: “La pena di morte è stata abolita in Europa. Ma è stata abolita negli Usa, in Giappone e in Cina? No. E allora vuol dire che in alcuni casi la pena di morte è legittima”.
Il contesto nel quale si torna a parlare della pena di morte in Turchia è quello della protesta di massa dei detenuti curdi, che rifiutano il cibo in alcuni casi anche da più di due mesi. I quasi 700 prigionieri in sciopero della fame, cui si sono recentemente uniti anche cinque parlamentari e il sindaco di Diyarbakir, chiedono la fine dell’isolamento cui è sottoposto l’ex leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan, Abdullah Őcalan – dal 1999 in cella nel carcere di Imrali, un’isola del mar di Marmara – e del divieto di autorizzare colloqui tra il detenuto e il suo avvocato. Chiedono inoltre di poter usare senza restrizioni la loro madrelingua, nella sfera pubblica, nel corso dei processi e nel campo dell’istruzione. Erdoğan li ha definiti ricattatori e mercanti di morte.
Amnesty International si è detta preoccupata per le notizie secondo le quali, nelle settimane passate, i prigionieri in sciopero della fame nelle carceri di Silivri e Sakran sono stati posti in isolamento mentre in quella di Tekirdag le guardie carcerarie hanno sottoposto a maltrattamenti chi stava prendendo parte alla protesta.
Le autorità penitenziarie avrebbero inoltre, in alcuni casi, limitato l’accesso ad acqua, zucchero, sale, vitamine e altre sostanze che vengono aggiunte all’acqua assunta dai prigionieri in sciopero della fame. Secondo gli standard internazionali sui diritti umani, lo sciopero della fame è una protesta pacifica e le autorità della Turchia hanno il dovere di rispettare il diritto alla libertà d’espressione dei prigionieri, compreso il diritto a protestare in tale forma.
Il ricorso allo sciopero della fame non è una novità nella recente storia della Turchia e i precedenti ci dicono che chi lo porta avanti è disposto a proseguire fino alle estreme conseguenze.
Il collegamento tra la situazione di Őcalan, lo sciopero della fame in corso e la pena di morte è stato esplicitato proprio dallo stesso Erdoğan, con una bella punzecchiata verso l’Unione europea:
“Nei confronti di questo capo del terrorismo era stata emessa la pena di morte, dato che aveva causato la morte di decine di migliaia di persone. Ma questo paese ha abolito la pena di morte a causa di pressioni da luoghi che conosciamo bene. Ora è in carcere a Imrali proprio perché abbiamo abolito la pena di morte”. Gli ha fatto immediatamente eco il Partito del movimento nazionalista, il cui parlamentare Zuhal Topçu, uno dei principali consiglieri del leader Devlet Bahçeli, ha dichiarato:
“Noi vogliamo soprattutto l’esecuzione del terrorista Őcalan. Siamo arrivati a questo punto” – riferendosi alle rivendicazioni dei detenuti che rifiutano il cibo – “a causa delle concessioni che abbiamo fatto ogni volta. Se oggi lo sciopero della fame è al centro dell’attenzione è per via di tutte le concessioni fatte in passato”. La pena di morte in Turchia è stata definitivamente abolita nel 2004, quando una maggioranza risicata approvò la legge 5218 del 14 luglio. Due anni prima era stata abolita per i reati in tempo di pace, ben 29, previsti dal codice penale del 1926. L’ultima esecuzione ha avuto luogo nel 1984.
C’è chi sostiene che Erdoğan abbia sollevato il tema della pena di morte per raccogliere consensi in vista della campagna per le elezioni presidenziali del 2014. Un editoriale del prestigioso Hurriyet lo ha ammonito a non creare “eroi”, ricordandogli che la pena di morte contro il terrorismo politico non serve a niente. Il rappresentante turco presso l’Unione europea si è affrettato a precisare che “non c’è niente di concreto in vista del ripristino della pena di morte. È stata solo una dichiarazione del primo ministro”.
“Solo”?

di Riccardo Noury per Amnesty

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